Teste fuori dal secchio

Caro Giotto, eccomi a scriverti perché voglio portarti in un posto speciale, ma prima di arrivarci dobbiamo fare qualche tappa intermedia. Qualche sera fa mi è capitato di ritrovare la foto che l’amico e caro compagno di studi e ora luminoso fotografo Aniello Barone per gioco mi aveva scattato qualche settimana prima ad una cena di quelle cariche di delizie e allegria.

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Nel riguardare la foto che ritrae il mio volto di profilo, ho iniziato, straniata, a percorrerla come la mappa di un territorio a me sconosciuto, e mi è venuta in mente la storia/aneddotto che avevo letto qualche tempo fa sul numero 3 della rivista METEK. Ladislav Novàk, poeta e artista ceco di Trebic, a pag. 37 di quel numero di METEK, dedica all’amico poeta e artista Vàclav Zykmund il suo scritto Le macchie gagnolanti e scrive “Del pittore Wang Hia (…) si è conservato nella letteratura l’aneddoto che immergeva la testa in un secchio pieno d’inchiostro e su di essa, dopo avervi strofinato un pezzo di seta, come per magia apparivano laghi, alberi, montagne …”. Nel breve saggio Ladislav Novàk ripete quasi ossessivamente questo aneddoto del pittore Wang Hia che immergeva la testa in un secchio pieno d’inchiostro e su di essa, dopo avervi strofinato un pezzo di seta (fino alla mania, fino alla mania!), come per magia vi apparivano laghi, alberi, montagne, e poi anche un cespuglio di rose, un pellegrino in un paesaggio annebbiato, il ritratto di una bellissima donna (o di una fata cattiva?) e molto altro ancora fino a raccontare di essergli apparso lui stesso “come un errante per Piazza di Spagna!”. Un aneddoto che mi aveva affascinato e che mi è tornato alla mente nell’osservare/esplorare quel volto, quel ritratto, pensando a come certe teste possano essere così dense di mondo, mondo di cui si sono nutrite e allo stesso tempo mondo che quelle teste sono in grado di generare, di dargli forma, di vederne variare e moltiplicare il senso: solo a immergerle nell’inchiostro e nello strofinarlo con un pezzo di seta.
A ricordare e rileggere – si caro Giotto, perché sono andata a riprendere il numero 3 della rivista METEK di cui tempo fa Achille Perilli mi aveva fatto dono, e a gustarmi nuovamente lo scritto di Ladislav Novàk – mi è tornato alla mente il lavoro che anni fa con un altro carissimo amico e luminoso fotografo, Alex Kroke, ho realizzato: quella immaginaria ‘location guide’ pensata per la Film Commission, e rimasta in bozza, nella quale ha preso posto anche quel bel palazzo progettato e realizzato dall’ingegner Trevisan nel 1928 come sede di una delle fabbriche di conserve Cirio nel quartiere di san Giovanni a Teduccio, a Napoli, precisamente in località denominata Vigliena per via del fortino o di quel che ne rimane. Era il marzo del 2008. Alex Kroke era tornato a Napoli da New York per un suo laboratorio all’Università ed è stata l’occasione per metterci all’opera documentando la bellezza di quell’edificio che, insieme ad altri, ci erano sembrati frammenti degni di un altro sguardo, di un’altra possibilità, oltre il loro seducente abbandono.

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Ecco, caro Giotto, è lì, a Vigliena, all’ex Cirio, nell’edificio neogotico di Trevisan, che voglio portarti. Un posto magico. A Napoli Est. Sul mare. A ridosso dell’avamporto di levante: dove è previsto un porticciolo turistico (il progetto già cantierabile – anche quello è nel mio archivio, per via di un progetto di responsabilità sociale d’impresa che all’epoca ho imbastito con Ansaldo STS, prima che divenisse giapponese). Te ne voglio parlare perché è da ieri sera che mi è riapparsa l’immagine di quell’edificio così imponente, forse per rimettere in moto delle teste, strofinarle un po’, alla maniera dell’artista cinese citato dal poeta Novàk, per far apparire scenari, personaggi, che possano comporre un nuovo quadro. D’altronde quell’edificio testimonia di un’archeologia industriale che appartiene all’intero quartiere che inizia a destarsi grazie all’insediamento universitario politecnico e ad altre realtà di alta formazione legate all’impresa.

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Un edificio, quello dell’ex Cirio, da cui manco da un bel po’. Perché dopo i sopralluoghi e il lavoro fotografico con Alex Kroke nel marzo 2008, forse non torno lì da quando ne visitai quella parte restaurata nel 2011, destinata ai laboratori del Teatro San Carlo. Ecco. Quel lavoro iniziato nel 2008 grazie alla complicità di un amico artista arrivato da oltreoceano, è rimasto nei nostri archivi. Sono solo frammenti ad alto potenziale di rigenerazione, direi. Ma pur sempre e solo frammenti, immagini sottratte alla distrazione e all’abbandono. Immagini che ora mi riappaiono forse a suggerire che è maturo il tempo perchè questi frammenti possano trovare inchiostro e seta adatti a dare nuova forma e spazio a pensieri rimasti nella testa, come sembra suggerirmi William Kentridge in una delle sue lezioni-spettacolo:

«Quanto è necessario comprendere o conoscere il mondo per poter capire? Quanto di un oggetto è necessario per completare quello che c’è? Si tratta di una visione generosa? O di un irresistibile voglia di capire? Uno vede delle forme nere astratte e attribuisce loro un significato; e pure quando qualcun altro cercherà di spiegargli che si tratta solo di fogli neri di carta che sono stati piegati e manipolati, non potrà comunque fare a meno di continuare a vedere in loro una figura, una sagoma, un cavallo, una forma. Cos’è questa tensione verso il significato? È una tensione che abbiamo dentro di noi, quella che ti fa finire le frasi degli altri. Se loro si interrompono a metà frase, tu le finisci letteralmente; oppure, mentre stanno parlando già prevedi come finirà la frase. È come se mandassimo qualcuno avanti, a vedere cosa c’è dietro l’angolo, e quel qualcuno poi torna e ci racconta quello che ha visto. Questo anelito verso il significato ci porta ad attaccarci ad ogni mezza parola o mezza immagine e a darvi senso. Una volta trovato il significato, poi, ci aggrappiamo ad esso anche mentre si disintegra. Lo facciamo con le immagini, ma anche con le idee, cosicchè quando l’utopia muore ci aggrappiamo al suo scheletro, sperando che il nostro desiderio, la nostra volontà, la riporti in vita… (…). Questo mettere insieme i pezzi fa parte di noi solo a metà. E mentre lo facciamo, l’altra metà va in panico di fronte alla frammentazione» (William Kentridge, 2008, I am not me, the horse is not mine, tr.it., Lecture performance with projection, 2009).

Per questo, Giotto, voglio portarti con me a Vigliena, in quel palazzo dalla foggia neogotica che ti piacerà per il suo ritmo verticale, la sua potenza ascensionale che può trasformare ogni immagine, frammento, idea, desiderio, in una nuova visione delle cose, nel loro compimento che sconfina oltre la linea di costa che è proprio lì vicino e corre lungo quella linea ferroviaria, la prima d’Italia, che fa da tracciato per altre e urgenti ‘magnifiche sorti e progressive’…

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HANNO SCRITTO:

Carmela Covino: ho letto il tuo articolo, proprio adesso! al solito ci sfioriamo.ragioni diverse, ma gli occhi che sono attratti dallo stesso… Ecco la presentazione che avevo scritto nel novembre 2014 per la mostra di Corrado Costetti, prodotta dal City Film Festival, su Napoli e i suoi luoghi crepuscolari:

“Dove stanno bene i fiori” 
Esistono luoghi e momenti cui è riservato il compito di custodire una perdita. 
Ospitano cose che non li abitano. Sono lì per caso. Senza che quel luogo le appartenga.
non hanno posto.
sopravvivono.
permangono quando la fine è passata, come, nella lingua, talvolta, le parole di quegli oggetti che non ci sono più. come un ordine che sopravviva a ciò che lo compone. sono cose finite senza bisogno di vecchiaia. 
cose in declino.
gli occhi corrono veloci e se ti fermi non c’è nulla che valga la pena guardare. soltanto senti l’aria. senti qualcosa che manca. il crepuscolo che accoglie ciò che non c’è più, ciò che era di casa altrove.