Fuori (dal) Salone, insieme: a vivere la poesia dell’incontro e dei soliloqui

Caro Giotto

nel bel mezzo dell’estate, mentre vivo i teatri antichi e i castelli i borghi le piazze che si sono fatti scena per performance live e proiezioni installazioni presentazioni, in forma di festival o programmi per far spazio alla produzione artistica e alla voglia di vivere gli spazi del ‘fuori casa’ e dei ‘fuori salone’, la poesia, più intima e meno plateale, mi viene a trovare. La poesia in versi e poemi, fatta di parole che danno voce alla voglia di non essere soli e di congiungersi a qualcosa e a qualcuno che torna presente e rende vive le parole, grazie all’occhio che accompagna la lettura e vede solo ciò che riesce a immaginare. In risonanza. Ecco, Giotto, che la poesia arriva a me grazie a un dono dell’amica artista Maria Thereza Alves: è quella di Jimmie Durham estratta dal volumetto ‘A celebration of life’.

 

Le mie parole le voglio espressive

quanto il verso di un serpente a sonagli.

Le mie azioni le voglio dirette

quanto l’attacco di un serpente a sonagli.

Gli effetti li voglio decisivi

quanto il morso di un bel serpente corallo rosso e nero.

 

Sono parole, quelle di Jimmie Durham, che evocano l’efficacia e la bellezza del “serpente corallo rosso e nero”. Si, Giotto, è questa ricerca dell’efficacia e della bellezza dell’azione che mi interessa. Quella accuratezza nella ricerca della forma perché possa agire come morso di serpente a sonagli, perché possa far presa su altra materia e operare per trasformarla, in un gioco di occasionale presa reciproca che lascia avvenire l’inatteso al momento opportuno. Ecco che il morso è la presa, l’apertura di un varco che rompe l’integrità dell’uno e produce variazioni, smuove e rigenera. Pure in dissonanza. Così che questo foglio bianco e le parole che ripercorro per condividerle con te, Giotto, possano essere quel morso e quell’occasione per inoltrarsi, attraversare e farsi attraversare, in altri spazi e provarne l’effetto dissonante che risveglia i sensi e scuote dal torpore di salotti troppo comodi dove per eccesso di sicurezza non ci si accorge di sprofondare.

Ed ecco che quel testo mi prepara al viaggio, al prossimo lavoro a Belvì – te ne racconterò da lì, a breve – e a quello che si annuncia come poetico scuotimento e mi riconduce alla necessità delle parole velenose, dei gesti e dei suoni che deformano corpi che si fanno spazio per restituire legittimità pubblica proprio alla sfera tattile e cinetica del vivere e dell’esistere. Il richiamo è a farsi serpente e cambiare pelle, rinascere alle cose per sentirle più presenti e toccanti. La forza delle poesia mi fa ripensare al potenziale po(i)etico degli spazi urbani e delle forme che abitiamo e attraversiamo. Ma la loro qualità formale e la loro consistenza materiale, come le poesie, non basta a dire del loro effetto, perché quegli spazi possono rimanere sullo sfondo come mero decoro oppure essere come il morso del serpente: nutrimento e ‘veleno’. Mi chiedo cosa faccia delle parole, come di altre forme e cose come le architetture o gli spazi urbani, una poesia… E me lo sono chiesto l’altro ieri anche nell’incontro pubblico organizzato a Napoli in una delle sale del PAN da Comunica Sociale e Cantiere giovani per inaugurare la mostra dei lavori fotografici e narrativi prodotti per il concorso App@Space realizzato nell’ambito del progetto educativo S.P.A.C.E. (Studenti Pendolari Acquisiscono Competenze Educative), finanziato dall’impresa sociale Con I Bambini e con capofila We World Milano. Un progetto che “mira a potenziare la comunità educante del territorio e che si occupa di dare una nuova vita ai luoghi formali e informali che gli studenti vivono, nel contrasto alla dispersione scolastica e alla povertà educativa. Con il concorso nazionale App@S.P.A.C.E, è stata data ai giovani la possibilità di realizzare, tramite l’APP@SPACE sviluppata da Comunica Sociale, la loro opera d’arte compresa di narrazione per raccontare il loro viaggio poetico per arrivare a scuola”. Un progetto che coinvolge studenti di 6 diverse regioni: Liguria, Piemonte, Lombardia, Abruzzo, Campania e Sardegna. Un’iniziativa che sollecita a metter mano al tema degli spazi urbani, dei trasporti pubblici, della mobilità, e della loro rilevanza sociale ed educativa. Un’occasione per restituire valore allo spazio pubblico e soprattutto a ciò che vi accade, a ciò e a chi vi si incontra. Un momento di confronto pubblico che mi fa tornare a pensare che poeta/artista è chi vive il proprio mondo allenandosi a sentire e a farsi sentire di più. Poeta e artista è chi vive più dentro il mondo, lo esplora, e fa di ogni passo occasione per riaprire lo sguardo, sperimentare e incontrare dell’altro, proprio grazie agli altri.

Mi dico allora e lo scrivo pure a te, Giotto, che la poesia esiste, sedimentata nelle cose, come nei libri, nelle opere, nelle forme che assume la realtà come performance, gesto pubblico come quello dei ragazzi che stanno partecipando al concorso di S.P.A.C.E. e contribuendo a costruire online una mappa emotiva dei luoghi attraversati e vissuti. Scomoda, mordente, letale, la poesia è l’essenza delle cose quotidiane, essenza che si svela solo quando una voce chiama e scuote qualcuno e la sua voglia di prender voce, turbando l’ordine predefinito delle cose. Oltre ogni rassicurante isolamento e distanza si può coltivare la gioia e la meraviglia del contatto/contagio procurato dall’incontro. Non mi piace parlare del potere delle immagini, né di quello dei suoni, delle forme, quanto piuttosto della magia degli incontri, del loro ‘effetto-morso-di-serpente-a-sonagli’, e della necessità vitale che conserva la poesia come la risposta sempre attuale all’esistere (e non all’essere) che cerca il modo per rivelarsi e comunicare, fare comunità con un altro. Si tratta di quella dimensione etica che sostanzia la poetica dell’agire e muove il flusso creativo e performativo di artisti come John Di Leva Halpern e Emily Harris con il loro Institute for Cultural Activism a New York, la cui ‘potenza’ è messa continuamente alla prova, senza dare nulla per scontato, neppure il gesto del respirare: come pochi giorni fa anche a Capri con l’azione ‘Fresh Air’ e quel che risuona al Museo Madre con l’opera Breathsculpture di DiLeva insieme all’immagine-manifesto del 1971 di Joseph Beuys ne La rivoluzione siamo noi. Poetiche che mi riportano ai versi di Jimmie Durham e alla loro essenziale vocazione a farsi materia incandescente per chi vi si avvicina ed ha pelle come di tamburo. Versi che producono immagini e toccano corde troppo spesso dimenticate ma che riguardano universalmente l’appartenenza dell’uomo al mondo, alla Natura, ai suoi fenomeni multiformi e talvolta poco prevedibili. Versi che percorro come un nuovo sentiero, dal chiuso del mio spazio di studio, fino all’aperto degli spazi ‘fuori salone’ dove appare la presenza del bel serpente velenoso. E proprio ora, chiuso da un po’ l’affollatissimo Salone del Mobile a Milano e il suo esteso e ricco ‘Fuori Salone’, rivendico il valore poetico dello spazio quando è aperto e accende la possibilità di connettere anche mondi molto diversi tra loro. Spazi come il teatro, come una poesia: luoghi che possono farsi ‘sacri’ se sottratti alla furia del consenso o dell’esibizione e della mera esposizione, e abitati, vissuti, trasformati in alchimia spaesante e ‘mordente’ necessaria all’esperienza dell’incontro e del ‘contagio’ possibile. Esco allora dalle pagine di questa piccola raccolta di poemi di Jimmie Durham e vado con la mente allo spazio Gallery di Living Divani in centro a Milano dove questo maggio s’è inaugurato con la mostra fotografica ‘Soliloqui’ di Gianluca Vassallo un nuovo senso di ‘vetrina’ e di ‘negozio’: spazi utilizzati per cercare e vivere una speciale qualità dello stare insieme, fuori dall’ordinario, necessaria per aprire momenti di significato più denso e di straniamento dal quotidiano. Spazi pensati da un’azienda in una logica che la stessa Carola Bestetti, la sua amministratrice, prova a rendere viva con un progetto che rompe con la simbolica comodità soporifera del divano e introduce quella del morso del serpente a sonagli dei versi di Jimmie Durham ospitando la straniante curvatura della luce su Milano negli scatti di ‘Soliloqui’. Un’opportunità per condividere con te, Giotto, quel piacere che dà stare tra otium e negotium, come tra contemplazione e azione produttiva, esperienza da spettatore e quella da attore/creatore/artista. In quel TRA si smuovono e generano pensieri ed altre possibilità. Ci si incontra senza una finalità precostituita né mediata da ruoli, funzioni, appartenenze. Con l’ambizione, forse, e la necessità, sentita da qualcuno come urgente, di rimettere insieme poesia/arte e impresa, perché restituiscano spazio e valore alla cura necessaria a restare desti senza assopirsi. Negli spazi di vita sociale e pubblica dove la vita celebra il suo rapporto con la corporeità, con le sue qualità sensibili, con la varietà del suo manifestarsi, gli incontri possono seguire logiche diverse dalla soddisfazione del piacere e dal consenso e ‘aprire’ ad altro sapere e ad altre imprese da realizzare. Mi piace pensare che anche città e territori che hanno dimenticato la loro vocazione e pratica produttiva/imprenditoriale, possano ripartire da un uso sociale degli spazi – anche in risposta a tanto isolamento e a tanta tendenza alla distanza – così da diventare veri e propri laboratori di ‘visioni’ e di ‘pratiche’ che emergono da quelle opere (d’arte e d’ingegno) che hanno il valore e il ‘potere’ di illuminare altre cose e rimettere tutto nel movimento (danzante) del vivere. Così l’arte torna ad essere ‘materia viva’, pulsante, rara, che va condivisa e partecipata per riattraversare i diversi mondi che si abitano e farne materia plastica, danzante come i corpi che pure proviamo ad abitare per esistere. L’arte e la poesia che trasformano la meraviglia, anche dei borghi e delle città che abitiamo, in esperienza. Per questo torno a te, Giotto, con il testo che ho prodotto per le foto di Gianluca Vassallo perché possa risuonare e fare di questo spazio di scrittura con te un parlar tra sé che prepara ad incontrare e realizzare altro.

#soliloqui. O del luminoso / lunare parlar tra sé

“Ci ritroviamo allora nell’ordine del corpo e del teatro. Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi di un corpo. (…) l’apparire-scomparire, accade là, nello spazio-tempo del luogo in cui si proferisce senso tra corpi – perché un senso può aver luogo solo ‘tra’ l’uno e l’altro e dall’uno all’altro, può essere sentito solo dall’uno attraverso l’altro. Questo spazio-tempo è ciò che chiamiamo ‘scena’ è quello proskenion sul quale i corpi avanzano presentando ciò che ogni corpo fa in quanto corpo: presentarsi nel suo apparire e scomparire, presentare l’azione – il ‘dramma’ – di una partizione del senso” (Jean-Luc Nancy, 2010)

Quanta luce a Milano! Quanta splendida luce negli scatti di Gianluca Vassallo e in ciò che resta, e mostra, dei suoi intermezzi con #soliloqui. Densa e alonica, la luce ti abbaglia e interrompe la meccanica riproduzione di ciò che l’occhio vede e misura, per aprire a uno scarto deformante che consente di guardare attraverso, come in filigrana, e riconoscere altro da quella geometrica ritmica sequenza o lineare planarità cui Milano sembrerebbe destinata. È luce aurorale, diafana, come quella dei bagliori de i chiari del bosco di Maria Zambrano, che muta tutto in paesaggio interiore e rivela dello spazio urbano il suo corpo lucente e vivo. È in quel paesaggio intimo che s’aprono spazi per parlar tra sé, per divagare da quanto già visto e affermato e inciampare in una delle infinite pieghe che trasfigura la scena per farne materia sonante. Momenti di sospensione e di respiro più fondo in cui geografia e architettura si fanno luoghi astratti, geometrie che rivelano una nuova grammatica per l’occhio che si fa mobile e distratto, perde il fuoco, rinuncia alla fissità del proprio punto di vista e alla distanza prospettica, per spaziare in molti sensi e ritrovarsi ferito e più vivo nella fatica di un attraversamento carsico. Così lo sguardo s’apre all’ascolto necessario a trovare qualcosa di sé, frammenti degni di un archeologo che intenda ricostruire templi e cattedrali sommerse. Sguardo che si fa gesto a metter mano al tempo e a cavarne tracce di viva contemporaneità.

Ed ecco che aggirarsi tra gli scatti di Vassallo vale come ripercorrere gli itinerari di un dialogo interiore, quello cui non sapevamo di attendere per noi stessi, e ricalcare le forme di una sorprendente immersione che ci fa scoprire di appartenere allo stesso sconfinato guizzo lucente: origine forse d’un immemore estatica venuta al mondo. Lucente e viva la città è spazio cavo che accoglie e risuona del silente parlar tra sé e mostra in superfice le viscere tumultuose d’una coscienza e del suo manto, sempre uguale, che della ripetizione fa pure la strategia di una fuga. Nell’ordine prestabilito del discorso, nell’apparente ripetersi d’un palinsesto urbano, la geometria si svela come rapporto aureo, disegno di Natura o Artificio, che genera assonanze e affinità con la propria e più intima sensibilità. Da est a ovest, passando per mezzogiorno, possibile intuire il sole percorrere il suo arco e battere un tempo caro agli dei, segnando repentini cambi di scena per chi affamato vi si lascia impressionare, esposto. Le immagini conservano qualcosa di quell’impressione e sottraggono la città al suo territorio per farne spazio di attrazione alonica dove inoltrarsi e poter ascoltare il senso delle cose, per sorprendersi a rincorrere il mattino in una pietra o solo nella sua ombra; e chiedere il silenzio adatto per sottrarre ogni cosa dalla finzione del racconto e restituirlo al mosso e commovente colpo che chiamiamo vento. Niente che possa descrivere un luogo ma solo lasciare che di quelle stesse immagini si possa vederne la trasfigurazione e afferrarne il fondo mosso, senza più parole per esser dette. Così sconfiniamo nei #soliloqui dentro una città che gioca a farsi attraversare, almeno per una volta, perché si possa oltrepassare la linea del visibile, varcarne la soglia con abile girovagare dello sguardo e toccare un punto, quel fuoco, oltre il quale possibile è svelare la grana sottile di tutte le cose.

E come in partiture o campiture interiori, sembra di potersi muovere nella città-corpo e figurarsi con Buckminster Fuller di incarnare una ‘architettura vivente’ tenuta in vita da opposte spinte e traiettorie, rivolte in molti versi. Mettersi in osservazione del lavoro presentato da Vassallo può essere allora esperienza tattile per sentire di essere parte vivente di quelle architetture e di quegli spazi, così che osservare significhi allertare un senso più pieno dell’esserci e del farsi presenti al mondo, con tutti i sensi. Osservare può coincidere dunque con l’impresa di edificare e prendersi cura di sé e del proprio mondo perché è gesto di reciproco svelamento e contagio, con cui incorporare il mondo e al tempo stesso dargli senso e lasciare traccia di sé. Si tratta di usare lo sguardo come per innescare un passaggio, un punto di contatto tra forme e stati di materia differenti, perché poi da esperienza intima si possa passare a generare un sentire comune, una consapevolezza differente del rapporto fisico che ci lega al mondo e alla sua, come la propria, consistenza inafferrabile. Così le immagini assumono di più e più chiaramente, come in un lampo, la qualità dell’immaginario che le muove e che esse stesse mobilitano per fare del mondo la propria casa e di quegli spazi la propria dimensione pubblica e la conquista di un’apertura necessaria.

Trovandoci spiazzati, in quell’apertura, la sequenza figurativa dei #soliloqui mette in movimento, generando per ciascuno differenti tracciati cinetici – trace-forms direbbe Rudolf Laban – che fanno da documentale atlante fotografico e segno di un passaggio. Ecco che affiora del paesaggio la natura di segno e si fa possibile intuire un’altra spazialità, non più solo verticale, perché è quella di un corpo vivo e patico e dei suoi pensieri ingaggiati insieme a ridisegnare mappe e farne territori transitori. Lo spazio urbano mappato dai #soliloqui ne è dimensione solida e fisica che cerca nella luce quel raggiante liquido fluire che segna continuità tra interiorità e mondanità, e trova nella loro difforme corrispondenza l’origine di ogni incontro e conoscenza possibile. E così, ripetendo con Buckminster Fuller che “il corpo della conoscenza si è sviluppato fuori dalla CASA”, lasciamo che i #soliloqui di Vassallo ci facciano evitare ogni dogma e ‘sviare’ dai luoghi comuni perché il desiderio di vivere corrisponda con il nostro luminoso avvenire.