FRAMMENTI DI UN DISCORSO ERRANTE E SUL FARSI FUOCO DI TERRA LUCENTE

Troppo spesso capita che rimpianga la città, la confusione delle strade che ti lascia camminare senza che importi che tu dia peso ai tuoi passi. Gli occhi vagano senza che serva sforzo a vedere, sono invasi senza dovere scegliere… e ti perdi e dimentichi. Ti appartieni poco, per nulla a essere fortunati. Non serve cercare, le strade, le facce, ti crollano negli occhi…

 (Carmela Covino, 2023, Altrimenti o l’arte d’inventare i ricordi, per Euploia by Materia Viva – www.materia-viva.it)

Caro Giotto

mi sono presa tutta il tempo per girovagare e – nel pieno del lavoro senza tregua per Materia Viva e il percorso urbano dedicato a Euploia (Monte Echia) tra Arte e Design, diventato anche una mostra nella Galleria SulMondo al Chiatamone 26 – eccomi di nuovo a te!: poco prima che i fuochi d’artificio esplodano più del solito a segnare il passaggio all’anno nuovo e poco dopo aver sentito splendere e vibrare il corpo dentro le sale del cellaio nel Real Bosco di Capodimonte a Napoli che ospitano la sorprendente mostra fotografica Napoli explotion di Mario Amura. Più precisamente, come ne scrive Serenella Iovino (2022) nel suo Paesaggio civile, si tratta di scatti prodotti durante performance live set che generano una ‘fotocoreografia’ e sembrano ripercorrere il movimento del ‘venire alla luce’, come per celebrare la straordinaria possibilità dell’umano di generare Dio (Cacciari, 2017). Possibilità che chiamiamo Arte e che per il corpo è ‘la via’ per riconoscere la forza della natura sublimata in forma esplosiva perché si senta scosso tutto, come fosse fuoco vivo. Vedere esultare la terra fino al cielo, trasfigura la realtà – quella osservata dal Monte Faito verso il Vesuvio e tutto il Golfo di Napoli nelle notti di Capodanno dal 2006 – così che quella stessa realtà trasfigurata dagli scatti di Amura e dalle sue manipolazioni digitali si possa possedere attraversandola da punto a punto, per scorgerne a sprazzi il segreto dell’invisibile forza ancestrale di cui è pregna. Il corpo che guarda e percorre quegli spazi è esso stesso magma, prima che terra vulcanica, e si rivela come scossa, terrae motus, a conoscere e manifestare la sua tremenda origine e fine. Il corpo si fa danzante se smette i panni del fugace visitatore e incarna un perturbato sconfinamento ad opera di luci suoni e ombre, che ne rivelano pensiero e anima proprio quando assume forma somigliante a figura o mobile partitura.

Si, caro Giotto: parlo di un’esperienza estetica/estatica perché è il corpo che splende e ritrova l’energia che la materia, tutta la materia, conserva e tiene viva: è il corpo che sente d’essere fuoco, magma, materia incandescente.  Ed è il corpo che confuso si rivede sulla superficie specchiante delle opere fotografiche e si sorprende nel mutare e confondersi in questa o quella forma di luce, e festante riscopre la meraviglia di uno spettacolo che sublima proprio la potenza, in parte sopita ma dirompente, del Vesuvio e della sua terra vulcanica. Lo stupore dello sguardo è come dell’astronomo che scruta le galassie e interroga lo spazio celeste per poterne misurare distanze, pur se siderali. E come novelli astrofisici con armamentario ottico d’ordinanza, essere partecipi di Napoli explotion regala lo slancio di chi, come Mario Amura e la sua troupe, ogni notte di fine anno da dodici anni, si regala di danzare al ritmo di una pioggia di stelle cadenti, che stelle cadenti non sono ma solo fuochi lucenti e botti sonanti. Una sinfonia di luci e suoni che mescola Natura e Artificio in una danza a ritmo sfrenato e si consuma come in un tempo sospeso, tra fine e principio, che fa da eterno ritorno per un rito che celebra l’umana esperienza di fondersi con un infinito cosmico. I fuochi, seppur d’artificio, accendono lo stato di inquietante vibrazione che è di terra e cielo insieme e dei loro sfocati confini, e consumano un tempo che ricompone frammenti di un unico e immenso paesaggio cosmico: quello a cui, a tratti, sentiamo di appartenere tutti.

Ecco, caro Giotto, che quelle luci e quei suoni, nel bel mezzo del Real Bosco di Capodimonte, tornano a parlare di una condizione della materia che è pure della condizione umana: fatua, frammentaria, pulviscolare che risponde al contempo ad energia, potenza e splendore, e non sa sottrarsi allo spettacolo della rovinosa bellezza della esplosione/distruzione che opera, come il Tempo, senza fine. Più che una mostra, dunque, quella di Mario Amura curata da Sylvain Bellenger e con il contributo musicale di Louis Siciliano, è un’operazione sul paesaggio e più propriamente sulla traccia che lascia l’umano nel gesto del farsi spazio nel mondo. Tracce dalle molte variazioni cromatiche, traiettorie di luce, passi come gesti sacri che affondano come radici nel terreno ed erigono templi e cattedrali: lettere d’un alfabeto che non trova lingua più adatta del silenzio che si fa contemplazione o laica orazione, e risuona come voce al vento e poi tamburo prima che campana o sua elettrica sintesi gloriosa. Un’operazione incontenibile – esplosiva appunto – che restituisce un’aura magica al territorio vesuviano e al suo sotterraneo destino tragico che diventa un luogo-simbolo per ripensare la terra, il nostro piccolo pianeta sospeso e mobile, attraverso l’effimero splendore di quei corpi di luce che l’attraversano e che siamo noi stessi che vi ci specchiamo dentro. Un insieme fatto di piccoli punti inafferrabili che l’occhio tende a guardare come insiemi, per riconoscervi figure senza volto la cui storia può essere di nuovo raccontata. La fotografia di Amura diviene raffinato strumento per una geografia che appare in forma di racconto vivo ad opera di una umanità nomade e della sua storia scolpita a suon di passi, e torna a disegnare mappe di un territorio mai uguale a se stesso eppure così pittoresco da rassomigliare sempre a qualcosa di potentemente familiare. La ripetizione in questo caso esalta la variazione e fa del paesaggio uno spazio smisurato dove perdersi spaesati o di cui sentire la fragilità che confina con la sua sempre imminente catastrofe. Tra vita e morte, lo spettacolo di Napoli explotion si consuma nello sguardo di chi fa festa e confonde creature e creatori per afferrare, secondo quella che Umberto Galimberti (2023) chiama ‘l’etica del viandante’, che il paesaggio “è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora”. La terra vesuviana, come tutte le terre e i territori, non è materia da consumare, fuoco da far bruciare, o scena della festa da celebrare, ma soprattutto straordinario luogo da abitare. Lo sguardo al cielo riconduce alla terra e fa luce su luoghi dove alta è la densità abitativa e pesante l’impatto della presenza umana su quella stessa geografia, sottratta al senso del sacro e riconsegnata un attimo dopo al suo apparente più cupo destino. A luci spente, quando mi allontano pure dalla scena così ben allestita della mostra, sento che Napoli continua a esplodere nell’intorno di una operazione così ben orchestrata sul finale di una direzione dello stesso Museo e Real Bosco di Capodimonte che ha guardato al paesaggio come spazio politico, restituendo quel pezzo di mondo alla città e alla sua vita quotidiana, restaurando e recuperando all’uso edifici, giardini, depositi, … Lo splendore delle luci di Napoli explotion non è isolato, infatti, ma risplende dentro la già fitta ‘galassia Capodimonte’ che si estende oltre le sale museali e le sue collezioni ed esposizioni e si alimenta anche grazie ai fuochi dei forni per le porcellane dell’Istituto ad indirizzo raro Caselli-Real Fabbrica dove si formano artigiani e ‘maestri’ eredi della cultura introdotta dai Borbone proprio lì a metà ‘700 e dove, oltre la scuola statale insediata dal 1960, si è da poche settimane inaugurata anche la ‘academy’ post diploma che specializza giardinieri, ceramisti e orafi. Ne sono soddisfatti lo stesso Bellenger che la presiede e Valter Luca De Bartolomeis che ne è direttore. Fuochi da alimentare, di cui prendersi cura perché facciano crescere la qualità dell’energia produttiva intorno al Vesuvio. Una geografia e un paesaggio che splende tutti gli altri giorni dell’anno e fa festa alla ordinaria geniale operosità di quello stesso territorio che non fa a meno dei botti a Capodanno ma poi ‘fatica’ tutto il resto dell’anno. Il lavoro fotografico di Mario Amura è allora per me, Giotto, elogio della luminosa qualità di chi vive quei luoghi perché possa splendere, farsi più visibile, e sentirsi parte di quello strepitoso paesaggio manufatturiero che del fuoco conserva il segreto del suo potere trasformativo e ne scopre ogni giorno la forza rigenerativa. Sentirsi parte dello spettacolo suona come un invito e richiama a ‘uscire a riveder le stelle’ perché l’occhio si alleni e s’apra come bocca di vulcano a cercare oltre la festa e il suo luminoso trambusto le mani di chi forgia e muta questa o quella materia in eccellenza di rara fabbrica o fattura. L’artificio può dirsi compiuto se il fuoco è segno di chi produce e non di chi distrugge. Una sfida dunque, un buon auspicio, quello che leggo in Napoli explotion. Augurio che testimonio con lo slancio quotidiano e che condivido con chi con me e come me con Materia Viva cerca “il bello del mettersi all’opera dopo i Greci, i Borbone e Adriano Olivetti’. E lo cerca per farlo ‘venire alla luce’ perché in ogni pur piccolo frammento si possa leggere il prezioso patrimonio di cui è parte e chiedersi, come fa Salvatore Settis nel video documentario in proiezione nella saletta nel fondo degli spazi del Cellaio, se questo lavoro potrà essere considerato un ‘classico’ (della storia dell’arte di cui lui stesso si occupa). Mi dico allora, e ti dico Giotto, che le opere di un contemporaneo hanno la chiara vocazione a declinarsi al tempo presente, mosse però da un gesto che oscilla e muove il passo e lo sguardo oltre quel tempo, più in là di quello che appare in quel solo frammento: verso l’infinito che pure vi si nasconde dentro. Lo sono state le prime opere pittoriche rinvenute nelle grotte a diverse latitudini del nostro pianeta e lo sono tutte le creazioni fatte ad arte per interrompere miracolosamente lo scorrere inesorabile del tempo e potervi intrecciare storie. Non so se già considerarle un ‘classico’ ma pure riconoscerne la somiglianza con dei frammenti cosmici, intrecci raggianti e non più linee, ritmiche irregolari, che inaugurano la festa ed ogni suo altro lucente ordine: perché di nodo in nodo, come di passo in passo, a splendere e stupire è sempre qualcosa d’altro se quello che appare non è mai lo stesso e suona come richiamo e incanto.