Il divenire del possibile

Caro Giotto, percorro le sale della Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, (allestite per la mostra ‘Da De Nittis a Gemito. I napoletani a Parigi nell’epoca dell’Impressionismo’) e lo sguardo si sofferma sui volti di un’infanzia – quella napoletana, dei vicoli e della miseria – cui l’abile mano di Antonio Mancini e di Vincenzo Gemito ha restituito una luce speciale, capace di sottrarre loro da una troppo disgraziata predestinazione. Una luce che oggi parla a me da una tela o da un bronzo forgiato ad arte e dà corpo a quell’idea tutta contemporanea di infanzia come progetto, come materia incandescente che chiede tempo per realizzarsi, secondo un disegno che deve incontrare l’arte della Cura e produrre futuro. Mancini e Gemito, loro stessi due artisti di umili origini, la cui mano fa splendere quell’infanzia miserabile di una grazia che seduce e richiama, nello spazio raccolto e monumentale del Palazzo, a ripensare proprio al senso dell’infanzia, in particolare a quella di cui Napoli e il suo ventre sono ancora oggi l’esempio di una umanità abbandonata.

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Ecco, caro Giotto, che l’infanzia vista attraverso lo sguardo inquieto di due artisti cresciuti nei vicoli della Napoli del secondo Ottocento, diventa quello spazio del possibile di cui parla Michel Serres (ne Il mantello di Arlecchino, 1993) invitando a ‘Partire, Uscire. Lasciarsi un bel giorno, sedurre. Divenire plurali, sfidare l’esterno, sviare per l’altrove. Perché non c’è apprendimento senza esposizione, spesso pericolosa, all’altro’. Le opere di Mancini e Gemito così come il trattato pedagogico di Michel Serres richiamano ad una diffusa e ancora attuale emergenza educativa relativa alla possibilità di ciascuno di DIVENIRE, più che di essere, alle infinite possibilità che ciascuno possiede e può realizzare, sottraendosi alla condizione dell’essere e abitando il sempre nuovo e differente ordine del possibile.

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Uscire dal frastuono della città, dal peso decadente di un male che emerge da una Gomorra abbandonata come l’infanzia al tempo di Mancini e Gemito, mi fa sviare e aprire alla voglia, bambina, di mutare il verso delle cose e della storia. Alle soglie dell’anno passato e sul principio di quello che viene, caro Giotto, l’oro e la porpora del ritratto del Bambino con la rosa in bocca di Antonio Mancini (1872) mi richiamano al tema del possibile e mi fanno pensare che il nuovo anno ha una rosa in bocca e dorme su un letto dorato. L’anno nuovo è come quel bambino il cui corpo non è ancora sazio di giorni ma desideroso di gustare la vita come un sogno carico di desideri per l’avvenire. Allora, contro ogni Gomorra, mi vengono incontro, insieme al Bambino con la rosa in bocca, anche il Bacco e il Saltimbanco con violino di Antonio Mancini: ancora due fanciulli, forse lo stesso, il cui sguardo seduce e fa riconoscere la bellezza della gioventù attraverso il rosso purpureo delle labbra che emerge come segno di un continuo turbamento per la Vita Nova, diremmo con Dante, pronti a farci ospiti del suo Convivio.

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E così anche i banchetti, caro Giotto, quelli attorno ai quali ci si ritrova in occasione di queste sante feste sono la festa, il fasto e l’abbondanza, con cui si chiude l’avvento e si accoglie il Natale: per propiziare ed accogliere la nascita che è del figlio di Dio ed è pure dell’anno nuovo. Una nascita che si rinnova e ha bisogno del corpo di un bambino, del suo volto e della sua carnale perturbanza, per celebrare con la sacralità del rito il farsi spazio del possibile.

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