Caro Giotto, ti scrivo mentre si appresta la festa di Sant’Antonio Abate. Si fa festa di notte, con i falò, i ‘fucarazzi’, i fuochi. Una festa propiziatoria, nel bel mezzo dell’inverno: a fare luce, a bruciare, come per purificare e fecondare. Un rito pagano di origine e tradizione contadina che si celebra in diversi luoghi – da Macerata Campania a Tufa, Sutri, Mamoiada, Novoli, Castellammare di Stabia, S. Antonio Abate, Nusco, Qualiano, Caselle in Pittari, Sant’Anastasia e molti altri: come a disegnare una geografia devozionale che trova nel fuoco l’elemento che unisce e a cui ciascuno consegna la propria buona sorte.
Il fuoco, caro Giotto, è tema a te caro e torna più volte nel tuo ciclo degli affreschi sulla vita di San Francesco nella Basilica Superiore ad Assisi: come racconta la Legenda maior, c’è fuoco nella scena dell’apparizione di San Francesco su un carro di fuoco e in quella dell’incontro di San Francesco col Sultano di Babilonia. Nella tua figurazione pittorica il fuoco, la luce, sono la prova di una forza divina, superiore, necessaria a regolare le vicende umane e il rapporto con il potere.
Nella scena di Francesco con il Sultano di Babilonia il fuoco mi sembra in dialogo/opposizione con le architetture, con i palazzi, con il palazzo del Sultano. Il fuoco da una parte, come evocazione e manifestazione del divino, di un potere superiore, che va verso l’alto e si fa liberatorio, e il palazzo suntuoso dall’altro, come immanenza di un potere terreno che esprime permanenza e regale fissità. Quest’immagine mi è tornata alla mente, dopo la visita al Museo di Capodimonte in occasione di Carta Bianca (la mostra temporanea che Sylvain Bellenger e Andrea Viliani hanno ideato e affidato a dieci personaggi della cultura perchè ciascuno proponesse di esporre il proprio ‘estratto’ dal patrimonio del Museo). L’immagine del fuoco e del palazzo regale mi sono riapparsi nel leggere un pezzo del testo-proclama scritto da Joseph Beuys per il quotidiano Il Mattino di Napoli il 16 aprile 1981, ma mai pubblicato: “Ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa, nel suo sentimento, nella sua volontà. (…) Uomo, tu possiedi la forza per la tua autodeterminazione”. Lo scriveva dopo il terremoto dell’80 in Campania, Beuys, e ancora oggi – mentre ci prepariamo a questo o quel rito intorno al fuoco – le parole di Beuys suonano come risveglio, per sottrarre qualunque gesto dal senso dell’inevitabile destino e conquistare, come nella sua opera-testamento, ciascuno il proprio Palazzo regale. Il Palazzo che ciascuno deve “conquistare e abitare degnamente” è la propria testa, dunque, per dirla con Beuys, caro Giotto. Il principio dell’autodeterminazione estende il concetto di sovranità, e fa di ciascun individuo l’artefice di Sé: come ricorda il filosofo Michel Onfrey nel bel saggio ‘La scultura di sé’, per far coincidere etica e estetica in un unico processo che è quello del vivere da condottieri. Ecco che nelle sale di Capodimonte allestite per Carta Bianca, mi sono tornati in mente quel fuoco e quei palazzi e ho voluto leggerci una frattura e allo stesso tempo un dialogo possibile: quel dialogo che lo stesso San Francesco di cui ci racconti, Giotto, ha saputo imbastire con il Sultano e realizzare quello che altri chiameranno dialogo interreligioso. Ma c’è bisogno di sentimento, di volontà, di forza, per farsi architetti/artefici del prezioso Palazzo che ciascuno possiede nella propria testa. Le parole di Beuys, il fuoco di Sant’Antonio, il Palazzo regale, diventano quegli spazi dei quali diventare sovrani, nei quali alimentare e far crescere la spinta all’autodeterminazione che chiede alla testa di farsi azione, gesto, e di dar forma alla propria ‘scultura sociale’. Parole, fuoco, architetture, sono materia per una scuola di politica, una scuola di cittadinanza, fatta praticando il senso di responsabilità e di autodeterminazione che fa dell’Arte quella macchina meravigliosa necessaria all’Uomo per ricordarsi della Forza/Potere di cui è capace per costruire il prezioso Palazzo che è nella sua testa.
(Dettaglio Sala Vezzoli, Carta Bianca, Museo di Capodimonte – foto Luciano Romano 2017)
E proprio con teste e busti, in un incalzante dialogo tra loro, si completa il percorso dentro Carta Bianca. Col dialogo. Fatto di sguardi, intenzioni, desideri, pensieri, tutti differenti eppure colti in un possibile punto di contatto che diviene il contagio di cui necessita ciascuna testa per poter accendere di desiderio e realizzare quel prezioso Palazzo di cui è sede.