L’esotico e il classico del Marocco: dentro l’Arte Pubblica

Caro Giotto,

il vento di inizio di autunno mi ha portato a sconfinare nel continente africano per esplorare possibilità di interazione con Università e Associazioni con cui le affinità possono sostanziare la crescita della mia ricerca e della sua bellezza. In Marocco sono andata a cercare l’esotico, sono andata con il senso mediterraneo del viaggiare come momento di incontro e di intreccio con l’esotico collocato fuori dall’ordinario, ed ho trovato anche molto della nostra classicità insieme alle tracce tutte contemporanee di un classico come le Metamorfosi di Ovidio e il suo racconto della fragilità, della leggerezza e della mutevolezza. In particolare, Giotto, del viaggio esotico che mi ha svelato molto anche del ‘nostro’ classico, voglio mostrarti l’opera Aire, luz y una cosa sin nombre di Safae Erruas (artista marocchina) perché la sua essenzialità ci avvicina al tema della purezza del bianco, della sua luminosità e leggerezza, svelando la questione dell’origine. L’opera infatti si compone di 10.000 bozzoli di seta e disegna nell’aria un sottile gioco di luce che corre lungo i fili di quella seta generata proprio dal baco che la tesse e la cui metamorfosi da bozzolo a crisalide ne segna la fine. La seta, arrivata da secoli in Sicilia e in tutto il Mediterraneo dalla Cina per via dei Saraceni, si esibisce in quest’opera dell’artista marocchina come segno di una traccia esotica, innestata poi in molte culture e divenuta coltura diffusa, che fa del filo l’elemento originario per chi come il baco tesse la propria ‘casa’, il proprio spazio vitale, fuori dal quale non sopravvive.

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Un’opera molto bella. Che mi ha sollecitato molto, forse perché è da qualche anno che sto lavorando alla metodologia embodied per dare forma a Theatrum_Opera: il prototipo di spazioFormante, ovvero di un ambiente generativo/poetico dove ciascuno possa mettersi in opera e farsi scultore del sé e del proprio mondo.

Per questo Giotto, quando ho visto l’opera di Safae Erruas mi è sembrato di vedere un ‘saggio’ di Theatrum_Opera. Come il ‘manifesto’ poetico del nostro lavoro in progress. Di Theatrum_Opera abbiamo già realizzato ‘Tessiture’ con i docenti e gli alunni del Liceo Artistico ‘Giorgio de Chirico’ di Torre Annunziata guidati da Federico Pinna Serra e dalla sua arte del tessere e del costruire telai. Abbiamo prodotto un tappeto che è spazio mobile, perchè fa spazio al corpo che a quello spazio dà forma con la sua presenza-mobile. E ora ci apprestiamo a ‘metter mano’ ad uno spazio del cortile della Scuola a Torre Annunziata e a due aule del Liceo ‘Giordano Bruno’ di Arzano e Grumo Nevano.

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Per questo la vista di quei fili di seta e di quei bozzoli a formare una scala, o semplicemente a muoversi e a disegnare uno spazio mobile, mi ha fatto rivedere il mio lavoro di ricerca come una necessità così come il tessere delle relazioni con altre realtà territoriali o partner più lontani cui legarsi per affinità, coltivando una tensione sociale e politica, pubblica, della ricerca stessa. A Rabat, grazie alla sua Biennale d’arte e allo stato di grazia che il viaggio ti dà nell’aprirti all’esotico, all’altro, al differente, ho come ‘afferrato’ il senso dell’arte e pure quello della ricerca scientifica e della mia ricerca pedagogica: Arte e Ricerca come ‘cosa pubblica’, come dimensioni di quella poetica generativa e trasformativa che anima il nostro possibile ‘costruire e abitare mondi’, in dialogo con l’esotico.

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Ero partita dalle suggestioni sul Marocco prodotte dalla lettura di Ragazzi selvaggi di William Burroughs per poi arrivare in territorio marocchino, oltre la linea di costa che delimita il Mar Mediterraneo, oltre la Tangeri dove ha preso corpo il romanzo e la sua visione distopica, per quell’oltre-passamento di cui pure la ricerca ha bisogno per un ri-posizionamento che metta in dialogo il classico con l’esotico, e approdare nella Kasba di Rabat in quello spazio poroso e oltrefrontiera indagato dall’artista Katia Kameli nel suo Stream of stories chap. 6, per rintracciare le origini indiane e arabe della tradizione fiabesca occidentale. Un’opera molto raffinata e un poderoso lavoro di ricerca.

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Un’altra artista marocchina ospite della Biennale di Rabat che grazie alla sua opera mi fa riconoscere, a Tangeri come a Rabat, che tutta la città è un grande teatro vivo e un’opera in divenire dove edifici e persone producono una nuova “letteratura monumentale” fatta di “pietre viventi”, “edifici viventi, corpo reale della città” (Coccia, 2014, p. 30). Opere ‘monumentali’ perchè assumono al mio sguardo la dimensione di una parte di Theatrum_Opera e che suggeriscono un uso pubblico, oserei dire politico, dell’opera d’arte e del suo processo produttivo.

L’idea di Arte Pubblica, di quella particolare “letteratura monumentale” di cui ci si può sentire parte, coincide con la forma della città, con le sue stratificazioni, e si può ‘leggere’ a partire dalla sacralità che emanano le spoglie di una certa classicità fino alla forma viva delle botteghe contemporanee e dei volti tragici che le popolano. La Medina vista dalla Kasba mi rivela il senso stesso della città, di uno spazio che si è ampliato e mutato nel tempo tessendo connessioni forti tra culture differenti che l’hanno attraversata, dominata, conquistata. La città come opera di chi ci è nato o di chi ci approda e che nell’abitarla se ne fa architetto, ne incide le pietre, dà forma agli spazi e lascia che quelle forme possano ‘cantare’ la cultura di cui sono espressione e intreccio narrativo. In quella città, girovagare per le strade della Kasba e poi arrivare fino al quartiere Technopolis di Salè per gli incontri istituzionali con Medhi Alihoua dell’Université International de Rabat (Department Science Po) e con Nezha Rhondali dell’Associazione Irtjal, ha suonato come occasione per far emergere delle concrete utilità sociali del lavoro che svolgiamo. Parlo di una ricerca che come l’Arte sia pensiero e discorso pubblico generato attraversando i luoghi che abitiamo, le pratiche e le tecnologie che utilizziamo, gli oggetti che qualcuno produce e in molti poi consumano.

Perché allora la Pedagogia si deve occupare, come credo, degli spazi? Perché con l’Architettura e l’Urbanistica lavorare sullo spazio per riconoscerne la matrice formante e prendersene cura in quanto mondo-di-vita? Perché? e perchè la Pedagogia incontra l’Arte, l’Arte Pubblica? Mi chiedo. E perché la logica insediativa si mescola a quella nomade, come quella cittadina con quella berbera?

Grandi o piccole questioni, Giotto, che so di poter condividere con te perché sento che Theatrum_Opera è quello spazioFormante cui l’Umanità ha messo mano da tempo, dimenticandosi, a tratti, di prendersene Cura.