dal buio (inverno), il bello del lucente divino natale

Caro Giotto

sono giorni prossimi al Natale ed è sera quando arrivo al terzo piano del Palazzo Caracciolo di Avellino percorrendo la via dell’Anticaglia a Napoli e le vie dintorno disposte e addobbate a festa. Negli spazi dove ora è insediata la Fondazione Morra Greco godo del silenzio denso come di un luogo sacro e giungo per necessaria ascesa alle sale, poco barocche rispetto a tutto il resto, destinate ora ai lavori di Luca Gioacchino di Bernardo. Dopo le luci e le festose luminarie della strada, trovarmi circondata dal rigore bianco e nero dei carboncini su carta, mi ha fatto rallentare il passo e intuire la presenza di una essenzialità del gesto creatore dell’artista. Una qualità non comune che s’avverte e che riconosco come provenire da altri spazi, come da storie antiche o senza tempo cui appartengono quelle figure memori d’una flora e fauna ancora da nominare e catalogare. Sento che quell’ammirato osservare necessiterebbe del tempo della contemplazione, dello studio, dell’indagine. Quello non è il momento.

luca Aquila

Ora però ti scrivo, Giotto, per tornare a quelle figure e al gesto di cui sono segno, alla mano che le ha generate e al desiderio da compiere nel produrle: figure messe in folio come pagine di un’Enciclopedia degna delle biblioteche di Jacques Lacan e Michel Foucault, cui sembrano trafugate, pure in disordine eppure con scrupoloso metodo. So che sono come inciampata per caso nelle opere di Luca Gioacchino Di Bernardo intravedendone i frammenti di un discorso e di una pratica che ha molto a che fare con l’essenza stessa del fare arte: atto di fede o di scienza compiuto per consegnare al mondo quanto di inafferrabile appartiene al solo ordine cosmico/divino.

luca Toro

Con quei carboncini ancora impressi nello sguardo lasciato appeso a quelle carte leggere fatte per sostenere il peso di flore e faune scampate da glossari enciclopedici o sommari appunti visivi, ancora nei giorni prossimi al Natale, mi torna in mente pure il caro amico Cosimo Scordato – raffinato e colto teologo, filosofo e anche studioso di estetica e iconografia biblica – che ha da poco pubblicato un saggio sul complesso basilicale di San Francesco d’Assisi di cui mi ha fatto dono. Le figure di Luca Gioacchino Di Bernardo, e pure le sue parole ad appuntare meglio posizionate viste sull’opera e ciò che le manca, insieme alle parole dello scritto di Cosimo Scordato unite a quelle della nostra ultima e recente chiacchierata a Palermo, di fronte al Castello della Zisa col sole a mezzogiorno, mi tornano alla mente perché risuonano del Natale: dicono, cioè, quanto il Natale sia una grande opera d’arte. Il Natale opera d’arte della cristianità che, a partire dalle Sacre Scritture, ha affermato la possibilità di “dare corpo alla visibilità di Dio” anche attraverso opere figurative di chi come te Giotto, insieme a Cimabue, Piero Lorenzetti, Simone Martini, si è fatto interprete di questa sfida epifanica, collocandosi oltre l’immediatezza del mistico ed eleggendo l’opera visiva o scultorea a mediatore tra sfera celeste e materia terrestre. Al di là di ogni rappresentazione possibile, e di tutti i tentativi più o meno felici di raffigurare il corpo di Cristo, e quindi del Dio fatto carne, mi sembra che il Natale, fin’anco il suo folclorico presepio, costituisca quella rituale ripetizione del gesto, tutto umano seppure in veste d’artista, di rendere evidente e contemplabile il corpo triforme di Cristo. Col Natale, tale gesto riguarda in particolare il primo delle tre forme che è “il corpo santo e immacolato, che è stato tratto (assunto) da Maria vergine”. Il Natale stesso è festa, popolare, che celebra il manifestarsi terreno di Dio che va oltre il Verbo e diviene Corpus Domini. Il Natale è proprio la celebrazione del Divino che si manifesta non solo come creatore di tutte le cose (visibili e invisibili) ma anche come figlio (che è Dio). Gesù bambino è Dio che si fa opera manifesta e si mostra come carne. E tu, Giotto, del Natale sei proprio il primo interprete, quella mano d’artista che coglie la sacralità della simbolica figurativa e ne fa solenne celebrazione della profonda verità della bellezza spirituale cui si può dare forma, oltre il verbo.

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Torno allora a Luca Gioacchino Di Bernardo, ai suoi disegni, e ne scopro tutta la poetica teologica del Natale perché sembrano ‘solo’ delle raffinate esibizioni di una tecnica che è il disegno dal vero ma poi non sono che la porta aperta su quel procedimento che è il conoscere e che si serve del gesto grafico come ‘segno’ per far somigliare scrittura con pittura, sovrapporne le stratificazioni che sono di un’architettura, quella del reale come quella del divino, che è complessa geometria da attraversare e comporre in cammino. Senza inganno, lo ‘Studio per paesaggi e altri animali’ è bellezza dell’artificio che si porge a un frettoloso sguardo e che al contempo può fare da viatico per incamminarsi oltre, verso il senso che vi è racchiuso, verso lo splendore di una luce che, come stella, è remota e vibra e supera distanze siderali per farsi annuncio, o solo stupore, perché ciascuno colga/senta/viva la gioia del venire al mondo.

giotto Gesù Bambino

 

“L’incantesimo migliore è la Geometria

agli occhi di un mago –

I suoi gesti quotidiani

grandi imprese –

agli occhi del mondo”

(Emily Dickinson, 1870, Silenzi)

COMMENTI

Lorenzo Cuna:

Natale. È tutto un gran frinire

di cicale. Quelle che cantano

l’amore universale e quelle che, in formato

familiare, ravvivano

di suoni il focolare.

E il cuore, di misera fede,

prima crede e poi miscrede nella festa dei moltissimi pochi:

datemi ancora giochi

e allegre mascherine,

datemi affetti, confetti

e mostrine.

Datemi la schiena

di chi resiste

ed il sorriso

delle grandi conquiste.

Datemi il fiato

delle cicale:

voglio cantare

anch’io

buon natale.

L.C. 25/12/2019

Cosimo Scordato: Grazie Giotto di avermi fatto conoscere Maria, la quale mi ha aiutato a capire meglio quanto avevo scritto perché lei vola alto senza perdere il contatto con la vita.

Francesco Rafani: mi è parso di ritrovare, in alcuni passaggi dedicati al gesto artistico, echi di uno scritto di Giorgio Agamben contenuto nella sua raccolta ‘Creazione e anarchia’ (pubblicata di recente da Neri Pozza e che ha occupato la mia scrivania nei primi mesi dell’anno che stiamo per salutare). Mi permetto di riportare qui un piccolo passaggio, sperando di averlo trascritto senza errori sul mio taccuino all’epoca: “[…] Dante ha compendiato in un verso questo carattere anfibio della creazione poetica: l’artista / ch’a l’abito de l’arte ha man che trema” (secondo un’altra lezione, che mi pare facilior: ch’ha l’abito de l’arte e man che trema). Nella prospettiva che qui c’interessa, l’apparente contraddizione fra abito e mano non è un difetto, ma esprime perfettamente la duplice struttura di ogni autentico processo creativo, intimamente sospeso fra due impulsi contraddittori: slancio e resistenza, ispirazione e critica. E questa contraddizione pervade tutto l’atto poetico […] Decisivo è che l’opera risulti sempre da una dialettica fra questi due principi intimamente congiunti”.