Da Madre Natura: tracce di un Futuro globale fatto ad arte.

Caro Giotto

da Asuncion, dalla capitale del Paraguay, dal suo paesaggio strepitoso, dalla sua selva che è segno della presenza della Natura lussureggiante che ti fa inneggiare alla sua forza e al suo fascino totalizzante, è possibile celebrare ogni giorno come una festa alla gravida femminea variazione, alla biodiversità e alla gioia di sentirsi parte di quella forza della Natura che è di ogni creatura vivente e delle sue variegate forme in divenire. Lì ho attraversato paesaggi lontani dal mio ambiente abituale, così l’occhio, il passo, l’orecchio, si sono fatti più acuti fuori dal quotidiano e pronti a fermarsi su ogni piccolo dettaglio: piccolo come quella libellula sul pavimento di una qualunque stazione di servizio dove la frescura si compra imbottigliata mentre il sole scalda pure l’ombra di un primo pomeriggio di fine estate. Piccole cose che s’insinuano nello sguardo sul nuovo mondo e da quelle s’origina una fenditura nel pensiero che, come un bagliore, cambia i connotati a tutto ciò che esiste già e che poi diviene parte di un’unica tela di cui non sai se essere il ragno o solo uno degli infiniti fili tessuti insieme

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Uno straniamento, Giotto, che ho provato anche per l’inaugurazione della terza edizione della Bienal Internacional de Asuncion al Museo del Sacro: Asuncion che non ha un museo di arte contemporanea ma che ha coinvolto istituzioni pubbliche e private, spazi culturali e spazi commerciali di tutto il centro storico – che pure destinerei a Patrimonio Unesco e preserverei da appetiti speculativi – trasformando la città in un unico grande scenario espositivo e performativo. Una giovane Biennale d’arte che pure ha messo al centro del suo progetto culturale i temi ambientali e il potere educativo dell’arte: evidentemente una necessità quella di riavvicinare l’uomo alla natura, sentirla respirare e imparare dalla sapienza millenaria dell’arte (degli sciamani?) l’amore mistico per la terra e per tutti gli spiriti che la abitano. Una sapienza che accomuna arte e scienze e che oggi può far sentire il valore universale della ricerca e della sua spinta innovatrice. Da Asuncion, nel bel mezzo di una selva che domina e predomina, appare evidente l’avanzare progressivo delle svettanti tracce di una invasiva presenza umana e mi auguro sia ancora possibile tornare a sentirsi parte di quella Natura e della sua forza cosmica. È una forza che ciascuno invoca in se stesso e che si fa necessaria soprattutto quando qualcosa – come un virus individuato e nominato, come tutto ciò che l’Uomo e la Scienza riconoscono per controllarne i comportamenti, prevederne gli effetti e provare a debellarne quelli mortali (siamo, mentre scrivo, al tempo del Coronavirus) – interviene nel flusso continuo del quotidiano e lo interrompe seguendo logiche altre che sembrano minare la sopravvivenza dell’umano e del suo incedere senza limiti. Allora, mi chiedo Giotto, può la voce collettiva degli artisti di quella Biennale che s’eleva da quel centro storico, tutto da recuperare alla coscienza storica e ai ‘beni culturali’, elevarsi e diventare sentire comune? Credo che in ogni caso per generare dei cambiamenti, sia necessario del tempo, il tempo che in genere ha a che fare con la produzione e non con la sola fruizione. Dietro ogni opera c’è un processo di ricerca, di studio, che fa coincidere la pratica artistica con quella scientifica. Come la vita delle piante e dei loro frutti. Credo che il valore di un’opera d’arte e in generale di un’opera dell’ingegno stia nel lungo processo necessario ad artisti e scienziati, agli artigiani della conoscenza, per arrivare alla produzione dell’opera e a vederne fiorire gli effetti sul piano sociale e del bene comune.

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Già prima di questa emergenza globale e di questo brusco ‘inciampo’ che frena l’apparente illimitata possibilità di spaziare, e oltre il fanatismo pro e contro scatenato dalla candida coscienza ecologista incarnata da Greta Thunberg, l’attenzione allo spazio del vivere e al rapporto tra Uomo e Natura, era arrivato, oltre che dalla Biennale di Asuncion, anche da altre parti del mondo dell’arte e della cultura. Solo come esempio, ricordo che alla Fondazione MAST di Bologna per la mostra Anthropocene, mi sono sorpresa di una ricerca così accurata, in bilico tra etica ed estetica ma anche tra filosofia e politica, nelle foto di Edward Burtinsky e nei film e nelle installazioni in realtà aumentata di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier che esibiscono i risultati di un’indagine sulle mutazioni dell’habitat umano e sull’impatto (devastante e violento) dell’uso delle risorse della Terra. Sono uscita stordita da quella mostra perché sembrava urlare la rottura di quel patto ancestrale che mi parrebbe legare da sempre e per sempre la vita dell’Uomo a quella della Terra. Lo stordimento era anche dovuto al fatto che l’evidente denuncia contenuta in quelle opere portava con sé anche un altissimo potere seduttivo: lo straordinario potere seduttivo e la bellezza della estetica della distruzione – degna di un nuovo capitolo de ‘Le lacrime di Eros’ di George Battaille. Tale bellezza ha almeno la forza di rimettere in discussione quel patto vitale per svelarci che la sua rottura si è travestita da sfavillio della metropoli e da urbanizzazione a tutti i costi, quasi fosse il modello garantito dall’evoluzione e da un pensiero unico. Il diritto all’educazione, alla casa, al lavoro, alla salute ci è infatti parso a lungo coincidere con la vita comoda della città e con il suo grigiore da cemento armato, ovunque fosse. Sfavillìo e grigiore in cui la coscienza ‘bio’ e ‘eco’ è stata sapientemente impacchettata e venduta a chi fosse disposto a pagare un prezzo alto per ottenere ancora un pezzo di quella Natura incontaminata, come di un altro pianeta, affidata ancora al duro lavoro di qualche contadino d’altri tempi il cui sorriso ci rassicura e colora lo stucchevole storytelling fatto ad arte per il marketing.

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Per fare qualche altro esempio, è della fine di febbraio 2020 il lancio al Guggenheim Museum di New York (nel frattempo chiuso, anche questo, per l’emergenza sanitaria che ha assunto dimensione di pandemia), della mostra dell’architetto e urbanista Rem Coolhaas, Countryside: The Future. Dal cuore di Mahnattan arriva l’invito a guardare agli spazi oltre la città, perché ricchi di futuro e di innovazione. Sembra un ossimoro, mentre campagna e futuro, per Coolhass e compagnia, sono tenuti insieme perché studiare la vita e i fenomeni naturali acquisisce un alto valore culturale importante per l’orientamento da dare all’innovazione e alla vita dell’uomo contemporaneo! Importante Giotto, come era stato per te, al tuo tempo, unire alla raffigurazione delle vite terrene e divine un’adeguata rappresentazione dello spazio: spazio architettonico, naturale o celestiale/cosmico, che fosse. Ora, un’istituzione dell’arte contemporanea così prestigiosa come il Guggenheim Museum, grazie allo sguardo di Rem Coolhaas, mette in mostra, proprio come un’opera d’arte degna delle più grandi collezioni d’ogni tempo, un differente approccio alla vita, alla ricerca, all’opera dell’ingegno umano, e dà spazio alla Natura perché proprio l’ingegno umano possa svelarne tutta la Scienza nascosta e scegliere con scienza e coscienza una Vita Nova, la strada da tracciare per dare forma ad un futuro (paradisiaco). Dalla città simbolo della cultura metropolitana e da uno dei suoi musei più attivi e di riferimento per la ricerca e l’arte contemporanea, colgo l’invito a guardare a ciò che arte non è, alla vita e alla organizzazione della Natura che resiste lontano dalle città, negli spazi non urbani, e che risuona con quanto ho osservato più direttamente in terra guaranì, ai limiti del Gran Chaco, in Paraguay.

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Tornando a quella terra e a quella selva selvaggia e aspra e forte di dantesca memoria, che pare infinita o solo sconfinata, mi pare tutto d’un tratto che quegli spazi corrispondano all’infinita conoscenza che le biblioteche, e il maneggevole formato libro, provano a riprodurre, a conservare, a testimoniare. Le biblioteche come patrimonio di un’umanità che può aprirsi un varco sull’infinito della Natura da conoscere e nella quale riconoscere quella natura umana così misteriosa e bella. Le biblioteche, nella loro grandezza finita mi appaiono ora una porta possibile sull’infinito della conoscenza che chiamiamo Natura e che contiene tutte le cose di questo e di quell’altro mondo, cui tutti a tratti sentiamo di appartenere. Essere bibliotecario, vivere la biblioteca come proprio habitat naturale, è dunque una forma di esistenza che avvicina alla ricerca del mistico come dell’esploratore, dello scienziato e prima dello sciamano e del poeta cantore: è vita che s’interroga di continuo e s’allena ad osservare, indagare, e pratica l’unità tra vita contemplativa e vita activa. Allora mi viene in mente l’amico artista Matteo Fraterno e il suo progetto da poco concluso nella biblioteca del Museo Nitsch alla Fondazione Morra a Napoli. Esperienze. L’infinito intrattenimento, lo ha chiamato Fraterno insieme ai suoi curatori (Pasquale Persico e Loredana Troise), come omaggio alla memoria e all’opera di Maurice Blanchot. Quel Maurice Blanchot grazie al quale George Battaille (nel suo L’esperienza interiore) ha detto che “Un uomo è una particella inserita in insiemi instabili e intrecciati”. Che immagine forte: “Un uomo è una particella inserita in insiemi instabili e intrecciati”! La stessa che ritrovo in una delle prefazioni al testo di Battaille (1961) ‘Le lacrime di Eros’ che è anche uno dei libri di cui Matteo Fraterno si è nutrito nella sua residenza-biblioteca e nel suo lavoro di ‘scavo’, proprio di un’archeologia contemporanea, per sognare dentro una biblioteca da cui far emergere le relazioni, rizomatiche le definisce Federico De Candia in uno scritto critico sul progetto, che lo stesso Fraterno intesse con i libri, i visitatori, gli spazi e gli arredi durante la sua residenza. Stabilire un nesso personale e profondo dentro il territorio-biblioteca significa affermare la necessità sempre presente dell’uomo-artista di lasciar traccia della propria presenza e della propria ‘lettura’ del mondo. Quanti intrecci che emergono anche qui, riandando alle Esperienze. L’infinito intrattenimento auspicato da Matteo Fraterno per la sua temporanea residenza nella biblioteca che ha significato trasformarla in spazio vitale, in luogo da abitare, come il mondo. Intrecci con la ricerca di Matteo Fraterno che avevo riconosciuto a partire dalle Tessiture prodotte l’anno passato per il mio progetto di ricerca e sperimentazione denominato TheatrumOpera. Da quelle Tessiture prodotte con Federico Pinna Serra – per realizzare lo spazio-tappeto e aprire alla cinetica nel prototipo di spazioFormante che andavamo realizzando – ho chiesto poi a Matteo Fraterno di proseguire il lavoro insieme per realizzare Attraversamenti di quello stesso TheatrumOpera e con un altro gruppo di docenti e studenti del Liceo Artistico di Torre Annunziata. Un modo per proseguire nella ‘fabbricazione’ della Scuola come TheatrumOpera e per fare dell’artista l’archeologo-esploratore della Natura, delle Biblioteche, degli spazi della formazione perché insieme tornassero ad essere ricuciti per comporre un tutt’uno di una nuova geografia e un nuovo habitat in grado di generare pensieri e uomini nuovi in grado di riconoscersi come parte di quella umanità raffigurata e raffigurante le grotte di Lascaux. Nello specifico, uno degli spazi esterni all’edificio scolastico, entra nella mappa scolastica e chiede di essere ‘abitato’, di lasciarvi traccia e creare nuove connessioni con il resto degli ambienti scolastici e con gli spazi urbani, così da poter apprendere a vivere ad arte intrecciandosi con l’immenso e il meraviglioso nascosti in tutte le cose e in ogni creatura e forma vivente: attraversando quello spazio come i libri e le biblioteche e molto altro ancora allenandosi all’osservazione, ad incontrare e ascoltare l’altro, a scegliere i propri maestri, ad estendere e moltiplicare punti di vista, a interrogare la superficie delle cose per poter cogliere qualcosa che va indagato oltre. Una pratica quotidiana che può trasformare ogni spazio vissuto in una ‘lettura’ attenta da cui si emerge con maggiore attenzione consapevolezza e responsabilità per l’insieme-mondo con cui si sente di essere intrecciati.

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Ora che #restoacasa è un invito istituzionale legato a una emergenza sanitaria, le case iniziano a somigliare di più a biblioteche, musei, gallerie, ad archivi ed inventari che ciascuno può costruirsi a partire da un piccolo punto terrestre. La casa somiglia a una biblioteca e pure a una casa d’artista sempre all’opera. Perché, oltre la semplice fruizione di contenuti, ci si mette all’opera, allo studio, a fare ricerca. E dunque ora, Giotto, più che in altri momenti della mia storia personale, mi affaccio a guardare lo spicchio di cielo sopra di me e ripercorro le strade attraversate fino a qualche settimana fa e ritrovo la gioiosa permanenza in Paraguay a parlarmi e a restituirmi il senso di un oltreoceano e di un oltretutto cui mi sento da sempre legata e che alimenta il mio senso del vivere come gesto politico, o che perlomeno prova a superare la limitata e sempre troppo piccola sfera personale. In Paraguay, dove il paesaggio annuncia la presenza del Gran Chaco e quindi di quella fitta foresta indigena per molti inesplorata, ho colto la bellezza da un archivio vivente celebrando ogni giorno il rito dell’abbondanza, dell’eccesso, dell’accumulo, e scoprendo il potere dello sguardo di catturare tutto questo, e del corpo di muoversi nel tentativo di afferrare e incorporare i segreti di tale abbondante bellezza da afferrare anche in forma di armonioso e straniante canto d’uccello. Inondato da tanta grandezza e abbondanza, l’occhio sente di non bastare a se stesso per catturare e dirsi pago di tanto eccesso; cerco l’occhio di artista o di scienziato come solo in grado di restituire qualcosa che supera il gesto del documentare, archiviare, indagare, conoscere, per diventare penetrante gesto poetico e dono generoso dell’Homo faber di ogni tempo. L’Eccesso, e solo l’eccesso dionisiaco, consentono di guardare oltre, oltre l’ordinarietà e l’oggettività, per smascherare la convenzione che lo sguardo si porta dietro. Osservare tutta quella bellezza naturale diventa allora un atto trasgressivo: può diventare un’estasi collettiva o soltanto la celebrazione di uno spettacolo che esibisce contemporaneamente la sua fine e il suo incessante presente e vivo divenire. Caro Giotto ritorno con te alle rare volte in cui la contemplazione diventa esperienza totale pari a quando si attraversano le sale di uno dei tanti Musei d’Oriente o d’Occidente e ci si concede all’estasi di questa o quella pittorica raffigurazione, dove la Natura rigogliosa fa da sfondo e si offre, come in una enciclopedia per illetterati, a interrompere lo sguardo all’infinito e imparare che ogni figura ha il suo sfondo. Che lo sfondo, cioè, ha dignità di personaggio protagonista. L’occhio impara a guardare in profondità e riconoscere le figure che emergono dallo sfondo come parte di quello stesso tutto verso cui l’artista col suo artificio suggerisce di inoltrarsi. L’occhio sa di avere a che fare con la sottile potenza della luce e inizia a muoversi in quell’intrico di forme e colori, come fosse occhio d’artista. L’occhio dell’artista cattura l’indicibile e nel lasciarne traccia opera una inevitabile trasfigurazione: così l’occhio, lo sguardo che produce sulle cose, è anche mano operosa il cui gesto non può che essere poetico. Penetra la materia del suo osservare e ne estrae qualcosa di altro che sta più al fondo. L’occhio allora è mano del mago che ‘opera’ un artificio per affermare il suo dominio sulle cose, pure se l’opera non è che il tentativo di copiare la cosa abbandonandosi al piacere per la cosa stessa. Mentre vado pensando e scrivendo a te, Giotto, a proposito del contemplare tanta eccezionale esibizione di Madre Natura e all’invito di Koolhaas per Countryside: The Future, mi tornano alla mente la casa di Lucy Yegros e quella di Herman Guggiari (scomparso nel 2012), ad Asuncion. Nel mezzo della selva più rarefatta del paesaggio urbano di Asuncion, la cara Lucy Yegros mi ha accolto sorridente lasciandomi attraversare la casa e interrogare gli oggetti, le opere, per offrirmi pezzi di una storia straordinaria fatta di una curiosità sempre bambina verso l’anima preservata nelle cose e nelle persone del piccolo grande mondo dove è stata e dove ha vissuto. A casa di Lucy Yegros – che ho cercato proprio grazie a Matteo Fraterno che me ne aveva parlato sapendo del mio viaggio in Paraguay – ho sentito i racconti mescolarsi agli oggetti della casa, alle storie dei maestri, degli amici, alle opere che sembrano parlare tra loro e ripetere a chi vuole ascoltarle di un mondo in cui la terracotta, la tela, i colori, il legno, la pietra, prendono forma grazie alla mano pronta a catturare qualcosa dell’inafferabile spirito del luogo. Quel genius loci le cui tracce ho potuto gustare grazie alla ospitalità di Lucy Yegros, come quella di una sorella, della saggia travestita da donna di mondo, dell’amica di ogni oggetto smarrito in cerca di una mano riparatrice: ho sentito avvolgermi il candore di una maga del tempo con cui giocare a sovrapporre e a piegare, ora il ferro, ora la tela, insieme al vento, ai tronchi, le foglie, e al loro mutevole andare, per scrivere altre pagine, tante pagine ancora, di un atlante cosmico.

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Ecco allora Giotto che a muovermi tra le opere di Lucy Yegros, così fittamente intricate negli spazi di casa e pure in quelli all’aria aperta, ho sentito di cogliere una necessità originaria del gesto dell’artista. Un gesto d’ogni tempo che segue e copia e trasfigura quello di Madre Natura e si fa testimone di un passaggio la cui traccia non è del singolo, dell’autore e della sua mercanzia, ma mette in contatto con quella possibile qualità dell’essere che il filosofo chiama singolare plurale. Ecco che l’artista si mimetizza e si confonde con l’immenso della Natura, con quella forza magica del forgiare che ho avvertito anche nella casa-atelier di Hermann Guggiari, ora trasformata in piccola casa-museo con bar e visita guidata, che ho percorso come un paesaggio cosmico, dove tutto sembra generato dal luogo stesso, dal genius loci, appunto. La mano dell’artista-designer-ingegnere è stata sapiente nell’utilizzare ferro, cemento, resina, legno, e mescolarli e forgiarli perché lo spazio chiuso fosse in continuità con quello all’aperto e le forme naturali confondersi con quelle artificiali. Ecco che anche qui scompare il concetto moderno di autore e di opera. L’opera dell’autore è generata da una grande capacità di leggere e abitare i luoghi. Come Matteo Fraterno nella sua dimora temporanea in biblioteca. Solo che nel caso di Hermann Guggiari e Lucy Yegros è la forza privata della loro casa ad aprirsi e a dialogare anche con grandi istituzioni culturali, come il Guggenheim Museum. L’intreccio che mi sembra emergerne non mi coglie di sorpresa perché mi ripeto con Battaille che “Un uomo è una particella inserita in insiemi instabili e intrecciati”!!! L’uomo è una particella di un sistema vivente e con esso vive, genera, muta, trasforma, pensa e sogna. Sogna e sorride perché scopre che la sua forza coincide con quella della Natura, con le delizie dei suoi frutti, quando dedica tempo ad abitare le biblioteche e a tessere a più mani la tela della vita.

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COMMENTI

PAOLO MARIA DI CATERINA: Tutto tende al disordine, e la Natura lo sa e ce lo ricorda.

LORENZO CUNA: C’è una grande motivazione a fare scuola. A resistere. Ecco l’Ouverture del Collegio dei docenti del 21 marzo 2020 all’Istituto Comprensivo Chiominto di Cori – Giulianello (Latina).

ISABELLA CARLONI: Cara Maria, per i fili di un arazzo di empatia che tessiamo insieme e che per pudore chiamiamo coincidenze, mi ritrovo in questi giorni a riattraversare i testi di Joyce Lussu. Il suo pensiero poetico riafferma quella esigenza di connessione fra scienza e arte di cui dialoghi in questi giorni con Giotto: ricerca e bellezza che l’estate scorsa (al Festival della Bellezza a San Teodoro) ci sembravano già costituire la bussola di un cammino che oggi appare ancora più urgente nella sua complessità. Lo strappo che si accompagna alla rottura di quel patto vitale, di cui racconti così appassionatamente, è ormai ben visibile: ad esso voglio opporre oggi una parola-vita, parola artigiana: il rammendare. Nel mio dialetto si dice rinaccio: un’arte piccola, che proprio da piccola talvolta ho respirato, quando mia madre con solerte maestria la esercitava se necessario. Un sapere artigianale che si fa adesso metafora di un mondo vacillante. Rinacciamolo allora, questo nostro legame vitale, intrecciando i fili dell’arte e di quella scienza che dà vita. Si! Serve tempo per questo, come dici; tempo per un’azione che sia esperienza, che sia pratica, un’azione non agente la chiama Simon Weil: in sintonia e in rapporto vivente con noi stessi e con gli altri, un’azione sensata, che nasca dall’ascolto, da un momento di arresto e di silenzio, per potersi rapportare alla realtà. “Non c’è tempo, serve tempo” diceva anche Antonio Neiwiller in un suo splendido manifesto sul teatro e il mondo: “tempo di mettersi in ascolto”, “tempo di un’espressione necessaria”. Oggi in questo strano 27 marzo, in cui sommessamente ma caparbiamente festeggiamo il teatro, il tempo ci è forzatamente concesso: speriamo di riscoprire in esso anche il senso profondo di questo nostro artigianato bistrattato e, fedeli al nostro dionisiaco DNA, di conservare il mistero e la necessità di rimanere aperti, in ascolto dell’altro. Speriamo di attraversarlo, questo tempo, come artigiani e messaggeri di un sapere e di un fare che conservino dentro l’impulso vitale. Mai come oggi l’invito di Joyce Lussu a diventare “partigiani della natura” mi sembra più bello e fiorescente.

ENRICA SPADA: “Leggendo il diario del tuo viaggio, Maria, mentre già mi trovavo al chiuso della mia casa, sperimentando nuove energie e nuove sensazioni mai vissute prima, i miei occhi si sono aperti su un mondo sconosciuto e meraviglioso, dagli spazi sconfinati e selvaggi, pieno di colori e di calore: ho visto i corpi generosi dei paraguaiani, ho sentito le loro voci affettuose e la forza dei loro gesti danzanti che s-muovono, attraverso sguardi accesi e profondi. Ti ho vista leggera e forte passeggiare in quella immensa bellezza di cui ti sei nutrita e, socchiudendo gli occhi, ho sentito con te quella potente e necessaria comunione con la Natura. All’improvviso un vuoto, come un sobbalzo: mi sono ritrovata con Giotto al mio fianco, catapultata in uno dei suoi affreschi, forse un riquadro della Cappella degli Scrovegni, quelli dove i muri non ci sono e tutto è visibile all’interno. Cercavo con lo sguardo, lontano sulla campagna coltivata, qualcosa della natura che mi potesse riportare a quell’immensità, ma Giotto cercando in tutti i modi di sistemare la mia veste, insisteva con il voler accomodare la posizione della mia testa e, inclinandola di lato a sinistra mi invitava a dirigere il mio sguardo verso il basso, precisamente su un angolo del pavimento. Lì, proprio in quel punto, una mosca stava immobile al sole, e così, per un certo tempo, sono rimasta a osservare la perfezione di quel minuscolo corpo alato. Lo smisurato e l’infinitamente piccolo sono le misure dell’arte e della scienza, nessuna differenza tra la mano che crea, che fruga, che distilla, che soppesa o che si muove veloce su una tastiera, producendo parole, suoni, pensieri, ritmi, come una piccola, quasi statica, danza”.

ANTONELLO SCOTTI: Ho letto con attenzione e interesse quanto da te argomentato, rivolgendoti a ‘Giotto’ ed un po’ anche a noi tutti. In questo tuo articolato ragionamento, si evidenzia un entusiasmo verso tutto ciò che ha a che fare con la ‘praxein’; vale a dire con tutto ciò che è ‘funzione’ per conoscere l’azione, supportata dal sapere, questa come esercizio per tutte le arti atte a mitigare i dolori dell’uomo: come già dai tempi di Empedocle. In questo tuo viaggio indichi un’urgenza, molteplice: da una parte ferite inferte dall’uomo alla natura; dall’altra un’ipotesi di sollievo da questo imbarbarimento. L’arte in tutto ciò è un catalizzatore, che evidenzia attraverso un‘est-etica, un modus ancora in atto di depredazione di risorse naturali per farle diventare prodotti artistici o comunque prodotti atti al commercio; dall’altra, un’arte-artista che assolve il suo rito di auscultazione sciamanica degli eventi della natura, traducendoli in eventi poetico-estetici. Detto questo, in estrema sintesi, oggi emerge, in maniera chiara e intelligibile, quel processo in cui l’arte e con sé il suo ‘vettore’, l’artista, debbano fare compagnia al ‘silenzio’, a quel silenzio che in questo momento storico ce lo siamo ritrovati, inaspettatamente, nelle nostre città, nelle nostre case, ridiventate, queste ultime, focolari domestici, luoghi dove abitare è sentirsi a casa. Ma cos’è la casa-il silenzio, se non quello spazio atto allo studio di sé e dei propri familiari, reinventando comportamenti e parole? Parole diventate asfittiche e anestetizzate, solo mirabolanti spettacolarizzazioni inchiavardate nei cardini della cosiddetta comunicazione di massa. Comunicazione di massa, non altro che strumento mefistofelico, in mano al potere che vuole tutti noi consumatori, cons-untori di noi e della natura. Oggi “stare a casa” vuole dire riprepararsi ad ascoltare i termini del nostro agire-essere nella natura, per la natura, con la natura.

FRANCESCO RAFANI: … Sulla diade Uomo-Natura probabilmente è già stato detto tutto quello che io potrei dire, per cui lascio parlare Vivaldi: (Il barocco, in particolare, ha a lungo riflettuto sulle possibilità dell’arte – musicale, ma non solo – di imitare la Natura, di farne un modello, di replicarne la bellezza senza per questo risultare artificiale. Nel 1746, l’abate Charles Batteux scriveva che “ogni cosa creata porta l’impronta di un modello”, dunque l’artista deve tenere conto del fatto che “inventare non significa punto dare vita ad un oggetto, ma riconoscere là dove esso si trovi”. L’obiettivo è “non l’imitare la natura tal quale essa è, ma tal quale essa può essere e tal quale la si può concepire nello spirito”.) Link a Opera 8 Concerto 5 di Vivaldi ‘La tempesta di mare’ (1720)

VINCENZO DE VITA: La natura è arte. E arte è cosa divina. Per divino intendo qualcosa di arcaico e primordiale che, malgrado i costumi e gli usi, risiede in ogni essere vivente. Trattasi di risvegliare il Marcovaldo che è in tutti noi. L’arte è un fenomeno della coscienza.

VINCENZO PENNELLA: la scena del Poema di Antonino nel film ‘Spartacus’ di Stanley Kubrick (1960)